Dislessia: l’importanza della diagnosi e i dei percorsi di intervento

La Dottoressa Sara Magri ci parla dell’impatto che può avere una dislessia mai diagnosticata e quali siano gli strumenti compensativi per potenziare le difficoltà collegate al disturbo

In un precedente articolo abbiamo descritto che cosa s’intenda per “dislessia”: quali siano le cause e i sintomi che caratterizzano il disturbo, oltre che il percorso da seguire per ottenere una diagnosi certa.

Non essendo una malattia, la dislessia non prevede né una cura né una guarigione effettiva. Ciò che può essere fatto è, invece, stabilire un percorso di potenziamento delle capacità tramite opportuni strumenti di training cognitivo.

Ma quanto è fondamentale una diagnosi precoce e un intervento mirato sul disturbo?

Lo abbiamo chiesto a Sara Magri, assegnista di ricerca nell’ambito degli interventi per bambini e ragazzi con difficoltà di apprendimento e disordini neuro-evolutivi presso il servizio SPEV del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna e responsabile di corsi di formazione per professionisti, educatori, insegnanti in materia di disturbi dell’apprendimento per Develop Players.


Dottoressa Magri, prima di parlare di come poter intervenire sul disturbo è importante che questo venga diagnosticato: quando si incorre in difficoltà di lettura dopo il secondo anno di scuola primaria dovremmo sospettare sempre una dislessia o si può più semplice immaginare un ritardo nell’apprendimento?

Superati gli 8-10 anni di età una grave difficoltà nella lettura in termini di lentezza ed errori dovrebbe rappresentare un campanello di allarme per i genitori e/o insegnanti. In ogni caso, per essere certi della presenza di un disturbo come quello della dislessia evolutiva, il bambino dovrebbe essere sottoposto a specifici test che saranno in grado di confrontare i tempi di lettura e il numero di errori con quelli tipici per la sua fascia d’età. Per ogni età, infatti, esistono dei parametri specifici standardizzati e riconosciuti a livello nazionale.

Non si può certamente parlare di semplice “pigrizia nell’apprendimento” quando un bambino, dopo esser stato valutato dallo psicologo con un test di valutazione approfondito, non riesce a raggiungere il livello tipico di lettura, ovvero adeguato alla sua età.: In quel caso si tratta certamente di dislessia. Inoltre, sempre il clinico deve valutare se la difficoltà di lettura non derivi da altre condizioni interagenti come la presenza di fattori ambientali ed educativi (ad esempio, un ambiente familiare con alta deprivazione culturale, linguistica o educativa), la presenza di gravi deficit sensoriali e intellettivi o problemi severi nella sfera emotiva.


Al contrario, cosa accadrebbe qualora la dislessia non fosse diagnosticata? Si potrebbe incorrere nell’aggravarsi del disturbo?

Più che acuirsi, è più corretto dire che il disturbo specifico potrebbe evolvere in conseguenze negative anche su altri piani. Infatti, ciò che spesso succede quando il disturbo non viene riconosciuto è un aggravarsi dell’impatto dello stesso sul piano emotivo. Le ricerche in materia hanno confermato che nella popolazione con DSA sono frequenti disturbi psicologici quali ansia e/o depressione ma anche sintomi somatici e disturbi comportamentali. Il rischio di sviluppare questi squilibri potrebbe aumentare nel caso non sia possibile per il ragazzo riconoscere con la diagnosi l’origine delle proprie difficoltà.


È quindi fondamentale chiarire il prima possibile se sia presente o meno il disturbo.

La diagnosi è fondamentale non solo per aiutare il soggetto a intraprendere un percorso riabilitativo che possa migliorare le proprie abilità, ma anche per chiarire al ragazzo e alla sua famiglia che cosa significhi davvero avere la “dislessia”.

Ciò che molti non sanno è che chi presenta questo disturbo ha una capacità intellettiva nella norma. Mettere il bambino davanti a questa consapevolezza può cambiare il suo approccio verso le difficoltà che quotidianamente prova. Al contrario, nel caso di una “non diagnosi”, il bambino e/o adolescente potrebbe credere che i suoi deficit siano dovuti a una ridotta intelligenza e abilità. Ciò potrebbe portare ad un disinvestimento nel proprio percorso formativo o a un abbandono precoce della scuola. Così facendo, tutti coloro che abbandonano il percorso scolastico si precludono numerose possibilità di tipo formativo e di investimento verso il proprio futuro come persone adulte.

Questo fa capire quanto una diagnosi precoce – nell’età prestabilita secondo le indicazioni date – sia fondamentale per intervenire sulla qualità di vita del bambino.


Una volta diagnosticato il disturbo si interviene attraverso un percorso riabilitativo: di che cosa si tratta?

Il percorso riabilitativo consiste in una serie di esercizi che migliorino le possibilità di apprendimento. I percorsi riabilitativi possono essere diversi fra loro: alcuni si focalizzano sul disturbo facendo fare esercizi direttamente su esso, altri invece potenziano funzioni cognitive trasversali alla base di tutti gli apprendimenti, come l’attenzione, la memoria, il linguaggio, la percezione e possono essere anche proposti con materiali digitali. Inoltre, al percorso riabilitativo occorre affiancare strumenti compensativi e a strategie dispensative.

Le strategie dispensative sono necessarie per evitare di mettere il bambino in situazioni di stress particolarmente complesse da gestire. Queste riguardano in particolar modo la vita scolastica del bambino. Ad esempio, durante le lezioni in classe le maestre eviteranno di far leggere a voce alta o non verrà richiesto di memorizzare le formule o le poesie a memoria per evitare l‘imbarazzo del bambino.

Gli strumenti compensativi hanno, invece, la funzione di ridurre l’impatto del disturbo nella vita del bambino, come durante l’attività dello studio.  L’esempio classico è l’utilizzo di ausili quali mappe concettuali o formulari che possono accompagnare il soggetto durante le interrogazioni o i compiti in classe. Attraverso il canale visivo, infatti, si può ovviare alle difficoltà di memorizzazione. Un’alternativa è anche quella di utilizzare la sintesi vocale grazie al computer: dentro i libri di testo è sempre presente un file in grado di riprodurre gli elementi testuali così da non richiedere allo studente la lettura degli stessi.


I serious game possono rappresentare un eventuale trattamento riabilitativo?

Non tutti i serious game sono uguali. Quando i serious game sono finalizzati ad allenare le funzioni specifiche dell’apprendimento, allora sono un ottimo strumento da utilizzare per la riabilitazione nel caso di tutti i disturbi dell’apprendimento. Questa tipologia di gioco, che si differenzia dal normale videogioco, è pensata per allenare determinate capacità attraverso la richiesta di specifici compiti. Grazie al suo aspetto ludico, è anche in grado di accrescere l’interesse e la motivazione del bambino e del ragazzo, che sarà quindi maggiormente coinvolto.

Ricordiamoci infine che migliorare e potenziare le capacità di apprendimento è sempre possibile, anche per coloro che hanno un disturbo specifico di apprendimento diverso dalla dislessia.

Dislessia: cosa c’è alla base del più diffuso Disturbo di Apprendimento

Come identificare la presenza di dislessia: i sintomi e la diagnosi del disturbo

La dislessia rappresenta il più comune tra i Disturbi Specifici dell’Apprendimenti a livello globale, colpendo il 3-7% della popolazione mondiale. Si tratta di un deficit che interessa gli automatismi nei meccanismi di lettura, rendendoli lenti e difficoltosi, con la presenza di numerosi errori che frequentemente causano difficoltà di comprensione del testo.


Le cause e i sintomi

La dislessia rappresenta un disturbo neurobiologico presente fin dalla nascita, non si sviluppa quindi nel tempo attraverso cause ambientali e/o emotive.

Al contrario di quanto avviene nelle prime fasi di apprendimento di un bambino, chi presenta il disturbo ha difficoltà ad automatizzare la capacità di riconoscere un grafema – come, ad esempio, una lettera – e ad associarlo a un suono.

Tale difficoltà provoca nel bambino con dislessia lentezza e scorrettezza nella lettura associati a un grande affaticamento mentale durante il compito stesso. Le  difficoltà si estendono anche a livello cognitivo: quando si richiede al bambino di iniziare a studiare – quando, quindi, la lettura diventa un mezzo tramite il quale acquisire informazioni –, quest’ultimo si scontra con l’incapacità di ricordarsi e capire i contenuti letti. Concentrando, infatti, tutte le sue energie nella lettura del testo, il bambino conclude generalmente la lettura senza essersi focalizzato sul significato di ciò che ha letto.


La diagnosi

Durante le prime fasi di apprendimento, ogni individuo presenta dei tempi di sviluppo diversificati. In generale, è stato constatato che l’automatismo della lettura si raggiunge attorno  alla fine del secondo anno della scuola primaria: è in questo periodo che in genere si è in grado di leggere in maniera sufficientemente accurata.

Proprio per questo motivo, la normativa vigente rispetto ai DSA ha sottoscritto che, per poter dare una diagnosi certa di dislessia, occorra attendere la fine del secondo anno della scuola primaria. Laddovevengano notate nel bambino delle difficoltà importanti nel meccanismo di lettura, è necessario rivolgersi al ai servizi territoriali presenti sul territorio di residenza per richiedere una diagnosi. In base alle direttive regionali, l’Azienda Sanitaria Locale (ASL) interverrà per indirizzare la valutazione all’interno delle sue sedi o inviare verso strutture private convenzionate.

Prima di una valutazione diagnostica verrà però richiesto al genitore di escludere, attraverso visite specialistiche – come visite oculistiche, audiometriche o valutazioni di tipo cognitivo sulle capacità intellettive di base-, la presenza di altri fattori  che possano essere causa della difficoltà di apprendimento del bambino.

Una volta verificata l’assenza di ulteriori motivi che potrebbero indurre il bambino a presentare dei deficit o ritardi nell’apprendimento, i genitori potranno fissare una valutazione diagnostica per accertarsi della presenza di dislessia.


La cura

Come per ogni altro DSA, anche per la dislessia non è prevista una cura. Il disturbo permane per tutto il corso della vita ma il bambino o il ragazzo con dislessia può compensare le proprie difficoltà e potenziare le proprie abilità attraverso trattamenti riabilitativi.

Il disturbo di apprendimento del numero e del calcolo: la Discalculia

Discalculia

Quali sono le cause della Discalculia? Esiste una cura? Develop Players presenta le principali caratteristiche di questo disturbo

La discalculia è tra i DSA meno riconosciuti e studiati dalla comunità scientifica. Questa colpisce circa lo 0,2% dei bambini in età scolare, registrando un’incidenza inferiore rispetto agli altri disturbi specifici di apprendimento.

Il deficit è anche noto come “disturbo dell’aritmetica”, questo perché, chi ne è affetto, presenta delle difficoltà in quelle che vengono definite “competenze matematiche”. Con queste intendiamo:

  • Le competenze numeriche, ovvero le competenze necessarie per il riconoscimento e la comparazione di quantità semplici (“subitizing”: riconoscimento immediato, “a primo sguardo” della quantità), la seriazione e le strategie di calcolo a mente.
  • Le competenze di calcolo, ovvero la capacità di leggere e scrivere i numeri (lessico numerico), di incolonnarli, di ricordare tabelline o risultati di operazioni semplici (recupero dei fatti numerici come, ad esempio: 5+5=10) e la capacità di saper svolgere le operazioni matematiche (procedure di esecuzione alla base del calcolo).


Le cause

Come nel caso degli altri DSA, le cause del disturbo non sono ancora chiare. Tuttavia, la comunità scientifica riconosce la primaria origine neurobiologica del disturbo. Si ritiene che questo sia dovuto a una serie di fattori che ne determinano l’insorgenza:

  • Ereditarietà: la presenza di un familiare con la stessa difficoltà;
  • Sviluppo cerebrale: sviluppo alterato di aree cerebrali legate all’apprendimento e alla memoria;
  • Fattori ambientali: nel caso in cui la madre abbia assunto alcol o droghe durante la gravidanza.

Risulta importante ricordare che il calcolo rappresenta un concetto culturalmente determinato che necessita di un apprendimento graduale. Ciò richiede un sano funzionamento di determinati sistemi cognitivi, come quello visuo-spaziale e visuo-percettivo, verbale, mnemonico (principalmente l’abilità di memoria a breve termine) e i sistemi esecutivi. Pertanto, la compromissione di tali sistemi accresce la probabilità che soggetto sviluppi difficoltà relative al numero o al calcolo.


La diagnosi

Per accertare la presenza di discalculia, la normativa vigente in materia di DSA richiede di attendere almeno la fine della terza classe della scuola primaria. È bene ricordare, infatti, che i tempi di sviluppo dei sistemi cerebrali e cognitivi sottostanti le competenze numeriche e del calcolo sono caratterizzate da elevata variabilità tra soggetto a soggetto, per tale motivo la diagnosi può essere effettuata solo nel momento in cui si ha la certezza che taluni sistemi cognitivi siano giunti a maturazione.

Nel formulare la diagnosi ci si deve inoltre accertare che il bambino abbia capacità intellettive nella norma e che non presenti deficit di tipo neurologico, intellettivo o che non abbia psicopatologie emozionali primarie.  

La valutazione diagnostica viene effettuata da specialisti come lo Psicologo o il Neuropsichiatra Infantile.


Il trattamento

In presenza di Discalculia evolutiva, è necessaria la pianificazione di interventi specifici ed individualizzati che permettano il potenziamento delle abilità cognitive alla base dell’area matematica. Tali interventi, a seconda del profilo di funzionamento del bambino, possono concentrarsi maggiormente sulle competenze numeriche o sull’area delle procedure di calcolo. Le proposte di intervento possono modificarsi in funzione delle difficoltà prevalenti e dell’età del soggetto e possono includere l’inserimento di strumenti compensativi specifici (mappe procedurali, calcolatrice, ecc.).

La comorbidità tra ADHD e DSA: l’importanza della diagnosi

comorbidità

La mancata diagnosi di disturbi di apprendimento e deficit dell’attenzione/iperattività può implicare gravi conseguenze nella vita degli individui che ne sono affetti

Quando parliamo di “comorbidità” intendiamo la compresenza, in uno stesso soggetto, di due o più patologie/disturbi.

Abbiamo chiesto alla Dottoressa Sara Giovagnoli, Psicologa e Professoressa Associata in Psicometria presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Bologna, che cosa significhi e quali possono essere le conseguenze della comorbidità di due disturbi del neurosviluppo, nello specifico nel caso di compresenza di Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSA) e Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD).


Si sente spesso parlare di comorbidità tra DSA e ADHD: esiste un rapporto di causa effetto tra i due disturbi?

La letteratura recente dimostra una elevata frequenza di disturbi dell’apprendimento in soggetti con diagnosi di ADHD.  Ciò non significa che fra i due disturbi vi sia necessariamente una relazione causa-effetto. La letteratura in merito è vasta. Esistono studi che sostengono l’ipotesi secondo cui i due disturbi presentano una “base comune” ovvero che siano manifestazione di una unica condizione patologica avente la medesima causa. Altri studi, invece, ritengono che i due disturbi abbiano natura e cause differenti e che la presenza di uno dei due possa essere il principale motivo dell’insorgenza dell’altro.

Tuttavia, risulta evidente come la presenza di deficit di attenzione e impulsività possano favorire l’insorgenza di difficoltà nell’apprendimento.


Se invece viene confermata la comorbidità?

La situazione che si presenta sarà in questo caso più difficoltosa. La compresenza genera infatti delle conseguenze più gravi su tutte le dimensioni di vita del bambino/a. In tal caso, sarà fondamentale pianificare degli interventi individualizzati che tengano conto delle priorità e delle risorse del bambino/a e della famiglia. Fondamentale è un approccio che preveda un lavoro congiunto e una collaborazione di clinici, famiglia e scuola al fine di raggiungere un obbiettivo comune, ovvero migliorare il benessere e il funzionamento adattivo del/della bambino/a.


Che cosa accade, invece, se i disturbi non vengono mai diagnosticati nel corso delle varie fasi dello sviluppo?

Le conseguenze di una mancata diagnosi potrebbero essere molto impattanti. Numerosi studi ci dimostrano che l’ADHD sia associato a un maggior rischio di sviluppare disturbi esternalizzanti, come, ad esempio, disturbo oppositivo-provocatorio e disturbo della condotta e a un aumento del rischio di uso e abuso di sostanze. Si pensa che l’aumento del rischio sia dovuto a una serie di fattori di vulnerabilità che vanno da aspetti neurobiologici a problematiche sociali derivanti dalla presenza del disturbo. Alcuni esperti parlano dell’uso/abuso di sostanze da parte dei soggetti con ADHD come un tentativo di “autocura”.


Quali strumenti vengono utilizzati per trattare una comorbidità?

Per scegliere il percorso di riabilitazione è prima necessario stabilire delle priorità. Ovvero, stabilire quale delle sintomatologie presenta un maggior impatto sul buon funzionamento e sul benessere del soggetto. Generalmente, in caso di comorbidità, viene prima proposto un trattamento incentrato sulla sintomatologia caratterizzante l’ADHD. A questa vengono poi affiancati interventi/strumenti utili al potenziamento e/o alla compensazione delle difficoltà di apprendimento. In ogni caso, il percorso dovrà prevedere l’inserimento di trattamenti, strumenti e strategie pensati per entrambi i disturbi. È comunque importante ricordare che, soprattutto nei casi di comorbidità, il percorso deve essere fortemente individualizzato sulle esigenze del paziente. Pertanto, dovrà poggiarsi su una approfondita valutazione del funzionamento del soggetto volta ad identificarne i punti di forza e le fragilità.


I percorsi digitali, come la teleriabilitazione o l’utilizzo dei serious game, rappresentano un vantaggio o uno svantaggio per chi è affetto da comorbidità?

Il videogioco potrebbe essere molto utile, soprattutto per chi soffre di deficit di attenzione e iperattività. I serious game sono creati in modo da presentare continui cambi di input che stimolano l’attenzione e spingono il giocatore a continuare il gioco anche a fronte di premi e ricompense. Questo aspetto risulta particolarmente adatto, stimolante e motivante a coloro che presentano un disturbo ADHD. Il continuo cambio di compito e la velocità dell’azione fittano perfettamente con il funzionamento di un bambino/a con Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività.

I videogiochi con finalità educativa sfruttano proprio le caratteristiche, le strategie e i linguaggi dei classici videogiochi ma hanno come finalità il potenziamento/la riabilitazione di alcune abilità cognitive specifiche. Pertanto, l’utilizzo dei serious game per il trattamento di soggetti con diagnosi di ADHD (con o senza difficoltà di apprendimento) potrebbe risultare particolarmente efficacie. Al contrario, l’utilizzo della più classica teleriabilitazione potrebbe essere poco efficacie per i bambini/e con ADHD che faticherebbero a rimanere seduti davanti allo schermo e mantenere l’attenzione per tempi prolungati.


L’ ADHD: i sintomi, la diagnosi e i consigli per il genitore

ADHD

Per riconoscere e affrontare questo disturbo è necessario individuarne i segni

Il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) rappresenta un disordine nello sviluppo neuropsichico che colpisce il 3-4% della popolazione italiana. Chi lo presenta è caratterizzato da un deficit nelle abilità attentive che spesso si traducono in una marcata iperattività motoria, cognitiva e/o una rilevante impulsività.

Con la consulenza della Dottoressa Sara Giovagnoli, Psicologa e Professoressa Associata in Psicometria presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Bologna, abbiamo indagato sulle caratteristiche di un disturbo come quello di attenzione e iperattività.


I sintomi

Il disturbo può essere contraddistinto da diverse sintomatologie:

  • Disattenzione: impedisce a chi è affetto da ADHD di prestare attenzione ad uno specifico stimolo per tempo prolungato, come, ad esempio, mantenere la concentrazione durante una lezione scolastica o durante un dialogo con i genitori o i compagni. Allo stesso tempo, la disattenzione, può presentarsi come elevata distraibilità a stimoli esterni e difficoltà a prestare attenzione ai dettagli, facendo sì che la persona fatichi a portare a termine un compito e commetta banali e frequenti errori di distrazione. È un deficit importante che può trasformarsi in un problema rilevante nella vita quotidiana.

    Il genitore potrebbe sospettare un disturbo dell’attenzione quando nota nel bambino gravi difficoltà nel mantenere attenzione per un tempo prolungato, nel prestare attenzione ai dettagli e ai dialoghi come se avesse sempre “la testa fra le nuvole” – e commette molti errori di distrazione, non solo a scuola ma in ogni ambito – spiega la Dottoressa Giovagnoli -. In generale, quindi, si avrà a che fare con un bambino che  fatica a portare a termine un compito, che è molto disordinato e distratto. Ad esempio, immaginiamo diconversare con un bambino con ADHD: il bambino tenderà a distrarsi, a non ascoltare, a interrompere e iniziare altre conversazioni o attività. Se gli viene chiesto di eseguire un compito semplice (‘vai a mettere a posto la tua camera’) è possibile che il bambino, una volta arrivato nella stanza, non ricordi più cosa gli fosse stato chiesto di fare e inizi una nuova attività”.

  • Impulsività: una sintomatologia caratterizzata da un’azione non ponderata alle conseguenze che produce. Chi è affetto dal disturbo agisce quindi senza pensare, non calcolando gli effetti che ne deriveranno. L’impulsività si manifesta sia da punto di vista fisico (azioni) sia dal punto di vista verbale.

    Le bambine e i bambini impulsivi non riflettono prima di dire o fare qualcosa. Di getto si buttano in azioni verbali o comportamentali che spesso producono conseguenze negative da un punto di vista sociale-emotivo. Sono bambini che faticano a rispettare i turni di parola, ad inibire azioni automatiche e/o inappropriate.  – chiarisce la Dottoressa Giovagnoli – . Esistono diversi comportamenti che possono far sospettare il disturbo. Ad esempio, l’incapacità di rispettare il proprio turno durante un gioco da tavolo, o di rispettarne le regole. I comportamenti impulsivi possono rivelarsi pericolosi per chi li mette in atto o  per chi li subisce. Se un bambino impulsivo si arrabbia, potrebbe mettere in atto azioni pericolose e socialmente poco accettabili verso il soggetto/oggetto che ha causato la sua rabbia senza riflettere sulle conseguenze delle proprie reazioni .”

  • Iperattività: nei/nelle bambini/e generalmente questa si manifesta soprattutto al livello fisico-motorio. Crescendo d’età il disturbo migliora nell’aspetto motorio – anche se percettivamente le persone che ne sono affette appaiono spesso molto agitate nei loro movimenti. Il disturbo, però, sebbene abbia una connotazione principalmente fisica, è anche mentale: nella mente di un soggetto iperattivo è infatti presente un continuo flusso di pensieri, che non gli permette di concentrarsi sugli stimoli esterni.

    “Per quanto riguarda l’aspetto dell’iperattività, questo sarà fisicamente evidente al genitore. – conclude Giovagnoli -. Sono bambini che muovono continuamente le diverse parti del corpo in modo poco organizzato e afinalistico, ovvero l’azione non è direttamente volta ad uno scopo. Sembrano avere una sorta di “motore interno” che non si spegne mai. Si dondolano, si alzano in continuazione, si arrampicano e corrono appena gli è consentito. Ricordo una madre che raccontava come il figlio iperattivo amasse andare in bicicletta “Va troppo veloce, cambia continuamente direzione, rischia sempre di cadere, ma miracolosamente non cade mai..o quasi, come se avesse dei super riflessi!”.


La diagnosi

L’ADHD viene generalmente diagnosticato durante la scuola Primaria, periodo nel quale l’effetto della sintomatologia risulta più invalidante. Naturalmente, a seconda della gravità del disturbo, il sospetto e la richiesta di valutazione può avvenire in epoche diverse. L’esordio è nell’infanzia e già in età prescolare possono essere colti dei segnali della sua presenza. Bisogna comunque ricordare che, essendo un disturbo di origine neurobiologica, questo si mantiene lungo tutto il continuum delle fasi evolutive. È quindi possibile che l’ADHD venga diagnosticato anche in età adulta.


I percorsi riabilitativi

Come per ogni altro disturbo neuropsichico, anche nel caso dei ADHD il percorso di riabilitazione deve essere fortemente individualizzato in base alle necessità del/della bambino/a.

A seconda dell’età, l’esperto può decidere di pianificare diversi interventi di potenziamento per migliorare le abilità compromesse. Allo stesso tempo, possono essere introdotti degli strumenti compensativi come, ad esempio, una sveglia che ricordi gli appuntamenti o una mappa concettuale che riassuma la sequenza di attività da svolgere per portare a termine un compito.
Importante è anche il lavoro da svolgere a livello emotivo, per non sottovalutare le problematiche personali e sociali che possono derivare dalla presenza del disturbo. Risulta auspicabile, quindi, che l’intervento sul bambino venga pianificato e seguito da un’equipe di professionisti che possa intervenire sui diversi aspetti.


I consigli per il genitore

Per il genitore di un bambino affetto da ADHD è consigliato attivarsi attraverso i servizi clinici del territorio o con dei centri privati esterni per effettuare una valutazione diagnostica.
Per supportare l’attività in famiglia, una volta accertata la presenza del disturbo vengono generalmente attivati dei percorsi di Parent Training. Si tratta di percorsi per insegnare ai genitori a gestire il proprio figlio/figlia con ADHD al fine di ridurre i comportamenti disadattivi o problematici, creare una ambiente che stimoli nel bambino l’autoregolazione, la metacognizione e l’autonomia e che migliori le dinamiche relazionali. Percorsi simili sono pensati anche per gli insegnati (Teacher Training) al fine di fornire strategie efficaci per la gestione e il supporto del bambino con ADHD in classe.  

Disturbi Primari di Linguaggio: come si presentano nell’età dello sviluppo?

Disturbi del linguaggio

Luigi Marotta ci parla delle difficoltà nello sviluppo linguistico in età prescolare e delle conseguenze che questa può implicare nelle funzioni del bambino

I Disturbi Primari del Linguaggio (DPL) costituiscono uno dei disturbi del neurosviluppo più frequente in età prescolare tra i 2 e i 6 anni. Questi interessano circa il 6% dei bambini, che possono presentare difficoltà nella comprensione, nella produzione, o in entrambi questi aspetti del linguaggio. Difficoltà che, inoltre, possono essere molto diverse da bambino a bambino sia per tipologia, sia per gravità e pervasività.

Il Dottor Luigi Marotta, Logopedista e Vicepresidente dell’Associazione Scientifica Italiana Logopedisti, ci parla di questo disturbo, dei primi segnali della sua comparsa e delle caratteristiche che può presentare.


Dottor Marotta, che cosa si intende con il termine Disturbo di Linguaggio?

Per prima cosa dobbiamo distinguere i cosiddetti disturbi “primari” del linguaggio con quelli “secondari”.
Questi ultimi, infatti, prevedono un problema organico di base molto evidente, ovvero sono dovuti a determinate patologie – e quindi secondari a queste, come ad esempio malattie infettive, traumi, tumori, ecc.

I disturbi primari, invece, sono caratterizzati dall’assenza di problemi neurologici, motori o di qualsiasi altra natura. Si presentano generalmente in età prescolare nel 6-7% dei bambini, numero che diminuisce sino all’1,2 % in quelli di età maggiore ai 6 anni. Ancora non siamo in grado dimostrare con certezza quale sia la causa dei DPL, ma la ricerca scientifica è sempre più orientata a riconoscere una compromissione neurobiologica su base genetica, come dimostrato anche dall’elevata familiarità del disturbo e dalla maggiore incidenza nella popolazione maschile.


Generalmente come si presenta o quali sono i segnali che potrebbero far sospettare un ritardo o dei veri e proprii disturbi di linguaggio?

Abbiamo già detto che c’è una vera e propria “costellazione” di tipologie differenti di disturbo di linguaggio, così come traiettorie evolutive molto diverse tra bambino e bambino. Spesso è difficile capire quando un bambino ha un semplice sviluppo rallentato o quando c’è un rischio di un disturbo vero e proprio.

Il linguaggio verbale, infatti, non è l’unica forma di comunicazione del bambino. Non lo è nemmeno per l’adulto. La comunicazione avviene attraverso differenti modalità: verbale, non verbale, intonazione, espressione facciale, contatto visivo, contatto fisico.

Ognuno di questi canali segue una sua traiettoria di sviluppo, a volte simultanea, altre volte parallela ma con tempi che possono essere molto diversi da bambino a bambino.


Ma allora come possiamo accorgerci di questo?

Già intorno ai 24 mesi di età (se non prima) è possibile riconoscere alcuni segnali premonitori di un ritardo o di un disturbo primario di linguaggio. La prima cosa da fare è osservare il bambino nella sua interazione quotidiana e cercare di rispondere ad alcune domande:

  • È interessato a quello che gli accade intorno?
  • Esplora lo spazio intorno a sé, si gira se sente una voce o un suono familiare o un rumore improvviso?
  • Condivide dei giochi?
  • Cerca gli altri bambini?
  • Risponde quando viene chiamato?
  • Si gira e guarda negli occhi il suo interlocutore?
  • Sembra comprendere quello che gli viene detto? Esegue semplici comandi come “vai a prendere la palla”? La risposta, anche se solo con i movimenti, è coerente con la vostra domanda?
  • Vi guarda negli occhi durante il gioco o quando gli parlate? Usa lo sguardo per “chiedere” la vostra attenzione o un oggetto? 10. Si aiuta coi gesti per farsi capire? Per esempio: indica con il gesto per richiedere un oggetto o un’azione? Mostra o dà quello che ha in mano? Fa gesti di routine, come soffiare per “scotta”, oppure mette l’indice sulla guancia per dire “buono”?

Se vengono notate anomali di fronte a questi comportamenti è importante rivolgersi al pediatra di base o direttamente a uno specialista per un consiglio sull’opportunità di una valutazione più approfondita.


La presenza di DPL prevede delle conseguenze che vanno quindi oltre alle difficoltà di esprimersi del bambino?

Questo tipo di disturbo può comportare difficoltà di comunicazione e di conseguenza una compromissione del normale sviluppo delle abilità sociali e cognitive.
La comunità scientifica è inoltre da sempre concorde sulla esistenza di comorbidità, ovvero la contemporanea presenza di altri disturbi. In particolare, si tratta di difficoltà di coordinazione motoria, di autoregolazione attentiva ed emotiva, di pianificazione e, una volta esposti alla lingua scritta, difficoltà nell’acquisizione della lettura, della scrittura e del calcolo. Si stima che il 40-50% dei casi soffra anche di DSA . Questo perché chi ha difficoltà con uno strumento linguistico orale può averne anche con uno scritto.


Quanto è fondamentale la figura di un logopedista davanti a disturbi di linguaggio?

La nostra è una figura specializzata nella prevenzione, valutazione e trattamento dei disturbi del linguaggio, che siano orali e scritti, in età evolutiva come in età adulta. Come ogni disturbo del neurosviluppo, anche questo prevede un lavoro multidisciplinare. Il logopedista, oltre per competenza anche storicamente, è stato, insieme al neuropsichiatra, una delle prime figure a lavorare con i DPL.


Quindi il consiglio per il genitore che sospettano il disturbo è quello di contattare immediatamente un logopedista?

Come dicevamo per un genitore può essere difficile rendersi conto della presenza di un vero e proprio disturbo del linguaggio. Per questo una buona prassi vede nel pediatra la prima persona a cui rivolgersi: sarà poi lui a decidere se monitorare semplicemente lo sviluppo linguistico e comunicativo del bambino o se richiedere una valutazione più approfondita con il supporto di un neuropsichiatra o di un logopedista.

I disturbi del neurosviluppo: quanti e quali sono?

Disturbi del neurosviluppo

Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali ha ridefinito i disturbi del neurosviluppo come deficit che accompagnano diverse fasi della vita di un individuo. Ma in cosa consistono?

I disturbi del neurosviluppo si manifestano nelle prime fasi dello sviluppo e prevedono dei deficit funzionali che incidono sul funzionamento personale, sociale, scolastico e lavorativo.

La loro categoria diagnostica è stata recentemente ridefinita nell’ultima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5): in passato, infatti, si consideravano questi come disturbi tipici esclusivamente dell’infanzia e dell’adolescenza. Oggi, grazie all’evoluzione degli studi scientifici, sappiamo che non è così. Questi persistono infatti per tutta l’esistenza di un individuo, modificandosi nelle loro prestazioni – per questo, può succedere che non vengano riconosciuti.

All’interno dei disturbi di neurosviluppo, inoltre, sono state inserite diverse tipologie di disabilità intellettive come, ad esempio, quelle che determinano problemi nella comunicazione, nella capacità di attenzione o nell’apprendimento.

All’interno di questo genere di disturbi rientrano quindi:


Disabilità intellettive

Secondo il DSM-5 la disabilità intellettiva è “un disturbo con esordio nel periodo dello sviluppo che comprende deficit del funzionamento sia intellettivo che adattivo negli ambiti concettuali, sociali e pratici”.
Questa prevede un deficit delle capacità cognitive generali, come il ragionamento, il problem solving, la pianificazione, il pensiero astratto, la capacità di giudizio, l’apprendimento scolastico e l’apprendimento dell’esperienza. L’individuo con disabilità intellettiva non è quindi autonomo in numerosi aspetti della propria vita quotidiana.


Disturbi specifici dell’apprendimento

I disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) hanno un’origine neurobiologica e riguardano specificatamente le abilità scolastiche come la lettura, la scrittura, la matematica nelle sue diverse sfaccettature (il senso del numero, il calcolo, i fatti numerici).


Disturbi della comunicazione

In quest’area ritroviamo disturbi fonetico-fonologico, i disturbi del linguaggio (DSL), della comunicazione sociale pragmatica e il disturbo della fluenza-balbuzie. Questi implicano una difficoltà nella comprensione, nella produzione e uso del linguaggio.


Disturbo da deficit di attenzione/iperattività

I disturbi di attenzione e iperattività (frequentemente riconosciuti con l’acronimo ADHD) sono disturbi del neurosviluppo caratterizzato da livelli invalidanti di scarsa attenzione e/o impulsività e iperattività eccessive. La disattenzione e la disorganizzazione comportano l’incapacità di mantenere l’attenzione, di curare i dettagli, di seguire le istruzioni e di organizzarsi. L’iperattività-impulsività, invece, comporta un elevato livello di attività e agitazione, come l’incapacità di rimanere seduti o di aspettare.


Disturbo dello spettro autistico

Il disturbo dello spettro autistico è caratterizzato un quadro complesso in cui emergono gravi difficoltà nel linguaggio, nella comunicazione e nell’interazione sociale. Il Disturbo infatti implica una incapacità a stabilire relazioni sociali normali fin dalle prime interazioni con i genitori. I bambini affetti dal disturbo hanno difficoltà nell’interazione in molteplici contesti dovuti anche a un utilizzo del linguaggio anomalo e limitato. Il comportamento tipico del disturbo dello spettrro autistico presenta un repertorio di comportamenti, interessi o attività limitato e ripetitivo.


Disturbi del movimento

I disturbi del movimento comprendono il disturbo dello sviluppo della coordinazione o disprassia, il disturbo da movimento stereotipato e i disturbi da tic. Questi si caratterizzano per un rallentamento motorio o, al contrario, per un eccesso di movimenti, sintomi che si differenziano in base al deficit presente nella persona (di coordinazione, stereotipato o da tic).


Disturbi del neurosviluppo senza specificazione

Si tratta di una categoria che viene applicata alle manifestazioni in cui i sintomi caratteristici predominano ma non soddisfano pienamente i criteri per qualificare l’individuo all’interno di uno qualsiasi dei disturbi del neurosviluppo. In questo caso, quindi, il clinico sceglie di non specificare un disturbo specifico per l’insufficienza di informazioni che possano condurre a una diagnosi specifica.

La teleriabilitazione in Italia: miraggio o realtà?

ADHD videogames

Gli ambienti sanitari stanno sviluppando nuove forme di riabilitazione digitali come la teleriabilitazione.
Il nostro Paese sembra però arrestarsi davanti a questa evoluzione.

La teleriabilitazione è una forma di presa in carico e assistenza da molto tempo conosciuta e utilizzata a livello internazionale nell’ambito dell’Health Technology Assessment. Questa tipologia di intervento, più diffusa e conosciuta per le patologie di ordine neuromotorio e in particolare per l’età adulta, consente di offrire servizi di riabilitazione utilizzando tecnologie di assistenza a distanza.

Negli ultimi anni e, soprattutto, con le difficoltà imposte dal lockdown, la teleriabilitazione ha però visto una crescita e un ampliamento del suo utilizzo. Questa ha iniziato a interessare anche i pazienti più piccoli affetti da disturbi del neurosviluppo come quelli di apprendimento, del linguaggio o dell’attenzione e iperattività.

Abbiamo parlato con il dottor Luigi Marotta, Logopedista e Membro della Consensus Conference sui DSA dell’Istituto Superiore di Sanità oltre che dell’Associazione Scientifica di Sanità Digitale, per capire in cosa consista questo tipo di intervento e come si sta sviluppando all’interno del nostro Paese.


Che cosa prevede la teleriabilitazione in età evolutiva?

Come per la telemedicina, con la teleriabilitazione viene scelto un percorso riabilitativo del bambino attraverso tecnologie che consentono di ridurre al minimo l’impatto che può provocare la distanza fisica. La necessità di proporre interventi a distanza anche in età evolutiva ha richiesto uno specifico adattamento delle modalità rispetto ai tradizionali metodi riabilitativi. Il bambino, infatti, deve essere inserito in un setting adeguato, con spazi pensati alle sue necessità. Inoltre, sarà per lui necessario il sostegno di un caregiver in funzione di mediatore non solo tecnologico ma anche psicoeducativo. I pazienti più piccoli, infatti, non sempre sono autonomi nell’utilizzo delle tecnologie e soprattutto in grado di auotregolarsi in un setting di questo tipo. L’affiancamento di un adulto adeguatamente formato permette oltretutto che si inizi ad educare il bambino fin da piccolo ad uso funzionale delle tecnologie.


Questo approccio viene considerato efficace quanto un intervento in presenza?

In generale, la letteratura sottolinea che i due processi possono essere entrambi efficaci in egual misura. Chiaramente un percorso integrato, dove alla teleriabilitazione viene affiancato un intervento in presenza, ha una ulteriore efficacia. Alcune dinamiche di gioco associate alle nuove tecnologie aumentano la motivazione e facilitano la focalizzazione dell’attenzione. Le nuove tecnologie permettono anche modalità di gioco condiviso a distanza che altrimenti non sarebbero possibili. Dobbiamo però ricordare che la scelta di questo genere di intervento deve essere valutata in base al profilo di funzionamento cognitivo, linguistico, motorio, adattivo ed emotivo del bambino. Per ottenere i migliori risultati, infatti, ogni intervento deve partire dalle potenzialità del bambino, tenere conto delle caratteristiche individuali, delle risorse ambientali ed essere quindi realmente personalizzato e ottimizzato.


Dopo aver accertato che il percorso sia adeguato al bambino, quali attori intervengono?

Quando si parla di teleriabilitazione si intende un percorso seguito da clinici, a differenza della teledidattica che è una metodologia che può essere seguita anche da insegnanti e pedagogisti. Anche se le diverse figure tra loro devono comunicare, hanno obiettivi e prerogative diverse: una lavora sullo sviluppo clinico e l’altra sullo sviluppo atipico. La strategia più efficace è sicuramente quella di unire i due percorsi, per facilitare maggiormente lo sviluppo del bambino che presenta un disturbo.

In ogni caso, è ovviamente necessario saper utilizzare i supporti tecnologici adeguati. Per questo tutti gli attori coinvolti nel training a distanza, dal clinico all’insegnante, dal genitore al caregiver di riferimento per il bambino, devono essere specificatamente formati e consapevoli delle richieste di adattività ed adattabilità tipiche dell’uso di nuovi strumenti.


Visto il suo potenziale, come viene utilizzata la teleriabilitazione in Italia?

Nel nostro Paese questa metodologia si è evoluta molto tardi ed è cresciuta prevalentemente durante l’emergenza causata dal Coronavirus. In paesi di grandi dimensioni, come ad esempio il Canada, l’Australia, o l’India, questa viene sperimentata e utilizzata da almeno 30 anni. I questi paesi si è dimostrata essere uno strumento fondamentale per ovviare alle difficoltà che le grandi distanze porrebbero ai pazienti. Ad oggi in Italia, mentre sono state recentemente pubblicate le Linee Guida sulla Telemedicina, non abbiamo ancora sviluppato delle linee guida specifiche in merito alla teleriabilitazione.  Abbiamo però provato a riadattare quelle internazionali alla nostra realtà: esistono, infatti, molti documenti al riguardo redatti dalle principali associazioni scientifiche nazionali ed è, inoltre, in fase di discussione un progetto dell’Istituto Superiore di Sanità proprio su quest’argomento.


Se un genitore volesse tentare un approccio alla teleriabilitazione per il proprio figlio, a chi dovrebbe rivolgersi?

Purtroppo ad oggi questa è riconosciuta come terapia erogabile dal Servizio Sanitario Nazionale solo in poche regioni. Questo rende molto più limitata la possibilità di accesso gratuito alle cure telematiche da parte delle famiglie. La questione è diventata ancora più grave a seguito della crisi pandemica per il  Covid.  Recentemente è stata però pubblicata una circolare del Ministero della Salute che invita le Strutture del Servizio Sanitario Nazionale a tener conto di questa tipologia di intervento. La cosa sarà ovviamente sarà affrontata a livello regionale, come è previsto dalle vigenti normative. Speriamo in una rapida presa d’atto e applicazione da parte dei servizi sanitari regionali. In questo modo potrà essere garantita una sanità più “accessibile” a tutte le famiglie italiane.

Linea Guida dell’ISS: alcune novità sulle questioni cliniche inerenti i DSA

Test Dsa e Adhd

La Linea Guida è una revisione sistematica dei più recenti studi prodotti dalla comunità scientifica ed è volta a dare indicazioni alle scelte dei clinici e a tutte le figure che si occupano della gestione dei Disturbi Specifici di Apprendimento

L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha pubblicato nel novembre 2021 la nuova Linea Guida inerente la gestione dei Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA). Questa fornisce le indicazioni cliniche più aggiornate redatte da esperti appartenenti alle principali associazioni scientifiche nazionali che si occupano delle tematiche sui DSA. Tali indicazioni sono frutto di una revisione sistematica accurata dei lavori scientifici pubblicati negli ultimi anni da ricercatori di tutto il mondo. Il lavoro della Linea Guida, inoltre, nasce come revisione delle indicazioni già pubblicate dall’ISS negli anni precedenti, a partire dal documento più importante in materia, la Consensus Conference del 2010.

Per capire quali novità siano state introdotte, abbiamo intervistato il Dottor Luigi Marotta, logopedista e membro della Commissione Esecutiva per l’aggiornamento della Linea Guida.


L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha pubblicato la nuova Linea Guida per i DSA a distanza di più di dieci anni dalla prima Consensus Conference. Lei è stato fra gli esperti che hanno contribuito alla stesura di questo importante documento: che cosa rappresentano?

La Linea Guida è un documento importantissimo a cui si devono riferire tutti i clinici che si occupano di DSA. Inoltre, questa ha ricadute anche negli ambienti non clinici, come la scuola, tutti gli enti educativi, le istituzioni. È pubblicata all’interno del sito dell’ISS nell’area dedicata al Piano Nazionale e rappresenta il frutto di un lavoro di tre anni svolto dai maggiori esperti appartenenti alle diverse associazioni scientifiche italiane.  È stato un importante passo che richiedeva queste lunghe tempistiche: le informazioni ricavate rappresentano, infatti, una integrazione delle scoperte scientifiche e cliniche più recenti sul riconoscimento (includendo anche gli indici predittivi e di fattori di rischio), la valutazione e la presa in carico di bambini, adolescenti e adulti con disturbo specifico di apprendimento. Queste esaminano numerose questioni inerenti i DSA e il loro trattamento, integrano nuove indicazioni per le diagnosi esistenti e presentano indicazioni specifiche per le diagnosi completamente nuove.


Perché è stato necessario rivedere quelle esistenti?

Come tutti Documenti Linee Guida, queste devono essere aggiornate costantemente visto lo sviluppo costante e veloce delle conoscenze e le nuove evidenze scientifiche. Rinnovare tali raccomandazioni è necessario per far sì che i clinici abbiano una visione più completa su come affrontare le problematiche delle persone con DSA, nonché per promuovere degli effetti positivi anche in altri ambiti come quello scolastico, socio-assistenziale e lavorativo.

I principali obiettivi che ci siamo posti sono stati, quindi, quelli di includere nel documento finale aspetti precedentemente non presi in considerazione. Inoltre, abbiamo voluto risolvere gli aspetti controversi nelle pratiche diagnostiche attuali, uniformare i protocolli diagnostici e migliorare i protocolli riabilitativi, ovvero le indicazioni per la riabilitazione.


Quali sono quindi le principali novità?

Oltre a parlare di aggiornamenti dobbiamo anche includere delle novità.
I primi hanno visto un ammodernamento rispetto ad abilità già studiate in passato (ne sono un esempio gli indicatori predittivi). Tuttavia, le innovazioni principali riguardano dei quesiti che, fino ad oggi, non erano mai stati presi in considerazione.

Un primo esempio è la diagnosi di DSA nell’adulto. La sua introduzione rappresenta un passo molto importante, soprattutto per l’applicazione della legge 170 sui DSA, la quale consentirà adesso di svolgere esami – quali, ad esempio, concorsi pubblici, patenti o simili – ma tenendo conto delle difficoltà di lettura del soggetto. Ciò significa che quest’ultimo sarà certificato nelle difficoltà dovute al proprio disturbo.

Una seconda novità ha invece visto l’introduzione della diagnosi di DSA per persone esposte a bilinguismo. Considerando il carattere sempre più multiculturale della nostra società era uno step fondamentale e imprescindibile: si pensi alla valutazione di un bambino che è appena arrivato nel nostro Paese e non riesce ancora a leggere un testo. Sicuramente non potremmo valutarlo con le stesse modalità di chi è nato e vissuto qua ed è da sempre esposto a letture e scritture in italiano.

Infine, come ultima novità abbiamo individuato una nuova declinazione del disturbo specifico di comprensione al testo. Questa può rendere complessa la comprensione del significato di un brano per coloro che sanno leggere perfettamente. Il fattore può diventare molto invalidante nella vita quotidiana e merita una specifica diagnosi e terapia compensativa.


Le linee guida sono quindi pensate per i clinici?

Si, poiché si rivolgono primariamente alle diverse figure professionali coinvolte nella ricerca, nella diagnosi e nel trattamento delle persone con DSA. Queste rappresentano, infatti, ciò che la comunità scientifica ha dimostrato servire ad avvalorare le scelte terapeutiche di chi lavora su questi disturbi.
Ma le implicazioni delle raccomandazioni investono, naturalmente, anche gli ambiti scolastico, lavorativo e assistenziale.


Esistono anche delle Linee Guida apposite per gli insegnanti?

Per quanto riguarda i docenti le linee guida vengono stabilite dal Ministero dell’Istruzione e pubblicate sul suo sito. Anche queste hanno visto degli aggiornamenti e dei nuovi protocolli operativi negli ultimi anni.


Mentre per i genitori?

Generalmente le Linee Guida vengono date a chi lavora con i bambini, ma i genitori hanno preso parte al processo decisionale dietro le nuove direttive. Questo perché potessero condividere la loro esperienza quotidiana rispetto alla patologia.
Esistono comunque tanti documenti, come ad esempio quello pubblicato dall’Associazione Italiana Dislessia, dove si spiega il disturbo al genitore e gli si danno dei consigli.

Come individuare un DSA?

individuare un DSA

La presenza di fattori di rischio nei DSA e gli indici che possono condurre a una sua identificazione: le risposte della Dottoressa Sara Giovagnoli e i riferimenti ai maggiori studi condotti in merito al disturbo.

Le traiettorie di sviluppo di un individuo rispondono a un complesso intreccio di fattori di rischio, riferiti tanto all’individuo stesso quanto al contesto in cui è inserito. Sono proprio questi fattori che possono condurre alla presenza di un disturbo come quello Specifico dell’Apprendimento nel soggetto.
In un’intervista con la Dottoressa Sara Giovagnoli abbiamo parlato di cosa si intenda per Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSA), ma quali sono i fattori che possono portare alla sua presenza? Ed è possibile individuare in anticipo un Disturbo Specifico dell’Apprendimento?


I “fattori di rischio” associati ai DSA

Per “fattore di rischio” si intende una condizione che risulta staticamente associata a una malattia o a un disturbo e che, pertanto, si ritiene possa essere correlata alla sua patogenesi, favorendone lo sviluppo o accelerandone il decorso.

Tra i fattori di rischio per cui è stata dimostrata o ipotizzata l’associazione con lo sviluppo di DSA vi è:

  • Aver subito due o più anestesie generali successive al parto e prima dei quattro anni di vita;
  • Appartenenza al genere maschile;
  • Presenza di un disturbo del linguaggio;
  • Familiarità nel nucleo familiare per DSA.

L’assenza di tali fattori non esclude la comparsa di patologie o disturbi, ma la sua compresenza aumenta notevolmente il rischio di comparsa della condizione clinica. A fronte di ciò è quindi possibile individuare nel bambino i cosiddetti “indici predittivi”, ovvero caratteristiche associate al paziente le quali possono rivelare determinate condizioni cliniche e il loro sviluppo.


Quali sono gli indici predittivi che suggeriscano la presenza del disturbo?

Nel caso della diagnostica di un DSA, gli indici predittivi possono essere osservati al meglio all’interno di un contesto scolastico, riuscendo a misurare il funzionamento cognitivo e linguistico del paziente.

Sebbene la normativa vigente stabilisca che un disturbo dell’apprendimento possa essere accertato solo al secondo anno (per l’area della scrittura o della lettura) o al terzo anno (per l’area della matematica) della scuola primaria, è possibile identificare con anticipo alcune caratteristiche dalle quali ipotizzare la presenza del disturbo.

Gli indici predittivi della presenza di DSA riguardano aspetti legati all’elaborazione fonologica, metafonologica e al linguaggio– spiega la Dottoressa Giovagnoli -. È importante anche valutare la funzionalità delle abilità cognitive “trasversali” agli apprendimenti, come ad esempio la memoria, l’attenzione e le funzioni esecutive così come le abilità prassico-motorie. Domande tipiche che vengono fatte in fase anamnestica riguardano eventuali difficoltà del bambino nell’imparare ad allacciarsi le scarpe o i bottoni, o a imparare a distinguere la destra dalla sinistra o ancora a memorizzare le filastrocche o i giorni della settimana”.

Nonostante tali riferimenti è però necessario ricordare che gli studi inerenti al rapporto tra i determinati predittori in età prescolare e gli esiti di DSA siano scarsi e, nella maggior parte dei casi, condotti su una campione anglofono. Il che rende difficile traslare i risultati su una popolazione italiana. Tuttavia, in accordo con i più accreditati modelli teorici relativa al disturbo, è stato evidenziato come ogni indice predittivo contribuisca in maniera variabile e possa mutare nel tempo: proprio per questo è stato raccomandato di non anticipare in alcun modo la diagnosi del disturbo, che potrebbe non verificarsi realmente.